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CANOSA SI PREPARA A COMMEMORARE IL VENERABILE ANTONIO MARIA LOSITO: UNA STORIA DI FEDE E DI SANTITÀ NELLE DIFFICILI PROVE DELLE EPIDEMIE...di Don Mario Porro

La recente pandemia di coronavirus è solo l’ultima di una lunga serie di flagelli che hanno colpito, anche duramente, il nostro Paese, lasciando in eredità alla nostra storia un lungo elenco di memorie legato a periodi di estrema sofferenza. Le epidemie hanno diversi nomi e nei secoli passati Canosa non ne ha scampata una: peste, colera, spagnola ….   

Momenti di dolore, di smarrimento, di fede resa traballante dall’idea, dettata dalla paura, di essere stati abbandonati. Eppure, proprio in contesti così difficili, la storia ci ha mostrato la presenza di uomini e donne che, affrontando le avversità, hanno saputo rendere se stessi degli esempi di fede incrollabile, toccando con mano le piaghe degli ammalati per incarnare in pieno la loro vocazione di religiosi. Fra la gente e per la gente.  ...(Continua a leggere)

 

Le pandemie non sono una novità dei tempi moderni purtroppo. E molto santi si sono trovati a doverle affrontare. Come il venerabile Antonio Maria Losito, redentorista. Di epidemie di colera e di calamità naturali le cronache canosine ne registrano diverse. Due secoli dopo la grande peste del 1656, da metà e fine Ottocento fino a prolungarsi nel nuovo secolo 1910-1911 con la città faticosamente in risalita economica e sociale, ecco un’altra malattia – epidemica quanto largamente infettiva – che ha spesso colpito Canosa: il colera. Dal febbraio del 1867 tristemente ricordato come "l’anno del colera", la storia di Losito si intreccia con quella della sua città. 

A causa della chiusura forzata del Collegio Redentorista di Materdomini (Av) Padre Losito è costretto a rientrare in Puglia e trovare rifugio nella sua città , presso i suoi famigliari. Il morbo colerico, come in altri centri pugliesi, fece la sua comparsa in città la prima volta nel 1867, e, la seconda, nel 1886, sempre all’inizio dell’estate, per poi scomparire con l’avvicinarsi dell’autunno. 

 Questa epidemia si sviluppò tanto rapidamente che il numero degli abitanti del Tavoliere diminuì sensibilmente in poco tempo. L’infezione, fortemente virulenta e mortifera, durò a Canosa dall’11 maggio al 31 agosto 1867e fu lapeggiore epidemia di colera dell’Ottocento. Ma non l’unica, visto chele pandemie nel mondo furono ben sei durante il corso del secolo.

Tornando al 1867, non solo allora non si conoscevano cure per il colera, ma neppure se ne immaginavano le cause. I canosini colpiti mortalmente dal morbo furono annotati tra le prime vittime nella prima statistica ufficiale del Cholera morbus a partire dal 15 giugno 1867: iniziando dal 16 maggio all’11 giugno fu di 179 contagiati, 81 morti, 110 ricoverati.Alla fine del mese di giugnoi decessi registrati furono304,mentre a fineluglio se ne contano165,ritrovandosiin calo adagosto, con 143 morti. Lamortalità fu di 612 canosini, ben più elevata della mortalità della spagnola. A morire furono per lo più bambini, anziani e braccianti agricoli che avevano “la terra come letto è il cielo come tetto”. Famiglie intere scomparvero. La zona rossa della città ad essere circoscritta fu il borgo della zona Castello.  

Il tema dell’assistenza spirituale agli ammalati, soprattutto a coloro che dovevano ricevere l’ultimo viatico, comportava un problema assai delicato: la maggior parte dei sacerdoti di Canosa viveva in famiglia, per cui l’esercizio del loro ministero esponeva i congiunti conviventi al rischio del contagio ogni volta che i chierici rientravano fra le mura domestiche; è da ritenere che tale difficoltà fosse a quel tempo generalizzata un po’ ovunque e non è da escludere il fatto che le responsabilità verso i propri cari potessero rappresentare un ostacolo all’esercizio della missione spirituale.

 

Padre Losito non si tira indietro e sfida anche il pericolo del colerapercurare, consolare, confortare religiosamente i moribondi. Mentre lottava con le emozioni dolorose, Antonio rimase convinto che, indipendentemente dalle circostanze, non si deve mai abbandonare i poveri. E così vegliava giorno e notte con paterno amore sulla sciagura che aveva colpito il paese, e non muoveva un lamento. Così per tre mesi. La gente lo osserva, lo ammira, lo ama.

Mi sembra opportuno riportare un documento che, a mio avviso, illustra tutta la drammaticità della terribile epidemia: " morte che arrivava inaspettata, fra spasmi atroci, senza alcuna speranza di poterla scongiurare. (…) La desolazione in questa città era al colmo e non solo la gente dello stesso paese negava soccorso, ma gli individui della stessa famiglia s’abbandonavano in preda al male, e i genitori agonizzanti erano dimenticati dai propri figli per il timore del contagio. Per le strade, nelle case, vi erano cadaveri abbandonati, e i contadini fuggivano dai loro tuguri (…). Ma non era così per i reali carabinieri e i vigili urbani; fermi al loro posto accorrevano ovunque richiedeva il bisogno, porgevano le cure agli infermi e seppellivano i morti".  

Caratteristica della morte al tempo del Covid-19 è proprio la solitudine, l’impossibilità di avere accanto a sé i propri cari, l’impossibilità di ricevere i sacramenti, di confessarsi, di essere accompagnati all’ultimo respiro da una voce amica che non sia quella dei medici o degli infermieri che lavorano nelle corsie degli ospedali allo stremo delle forze.

In questo contesto si inerisce la nascita della Confraternita della Misericordia di S. Gioacchino il cui intento fu quello di colmare la ‘mancata assistenza ai moribondi, a provvedere alla sepoltura dei poveri e al sostegno delle famiglie indigenti’. Vista l’esperienza del morbo asiatico dell’anno precedente essa prese vita nel 1868 e si fecero promotori laici e sacerdoti, tra essi annoveriamo come confratello Padre Losito. Nell’archivio della confraternita si conserva la petizione rivolta al Prefetto della Provincia sottoscritta dal Servo di Dio. La Confraternita per la sua attività caritativa si ispirò a una delle sette opere di misericordia corporale, cioè quella di seppellire i morti.

In conseguenza del susseguirsi delle diverse forme di epidemia, nel corso dell’800, riprese vigore presso il popolo il culto di San Sabino e di S. Gioacchino, quest’ultimo protettore dal colera, e si intensificarono le manifestazioni religiose per impetrare la grazia della salute, oppure in ringraziamento dello scampato pericolo di morte. Ne sono una testimonianza gli ex voto; un caso esemplare è la campana maggiore della cattedrale di San Sabino che nel procedere alla rinnovata fusione doveva essere dedicata ai santi patroniper ricordare i tempi travagliati del 1867 dedicata a Santa Maria della Fonte e a San Sabino, e come riferisce ne “ I sacri Bronzi” il maestro Di Nunno si legge la seguente l'iscrizione: Pio P.P. IX / aes hoc conflatum aerumnosis temporibus dicatumque/  S. Sabino et De Fonte S. Mariae/ A.D. 1868/ Populi Devotione/ Antonius Ripandelli S. Angeli Lumbardorum fecit a. 1868.

 Il colera viene menzionato più volte anche nella produzione epistolare del Losito, sopratutto in quelle lettere, indirizzate ai suoi concittadini, attraverso le quali egli offriva presenza paterna e accompagnamento spirituale. Ai suoi concittadini, il padre redentorista consigliava come comportarsi in tempi di colera, e, li esortava a stare vicino ai malati e a non abbandonarli,  incoraggiando le famiglie a osservare le precauzioni che le autorità civili stavano raccomandando. Non mancano al suo amico, p. Giuseppe Maria Leone a Trinitapoli, ai superiori di Roma e allo stesso Papa. Ecco alcuni stralci del testo: «Sono profondamente commosso sopra i miei amati Concittadini. Stiamo facendo grandi preghiere onde Canosa sia salva. Vi spedisco apposita lettera per il nostro diletto popolo con preghiera caldissima che la facciate mettere a stampa per diffonderla largamente tra i miei amati Concittadini... Preghiamo tutti, torniamo a Dio ed ho grande fede che il Signore ci salverà».  

La calamità che per noi è stata (è) la pandemia, per Padre Losito fu la tragedia del colera.  A differenza forse della maggior parte di noi, il redentorista aveva però una riserva di fede in Dio inesauribile cui spesso attingeva nei momenti difficili. Davanti alle sue reliquie Canosa chieda a questo testimone che spinga il suo sguardo di intercessione ad abbracciare tutta la città, dando sostegno a tutti, credenti e non, prendendosi cura di chi è maggiormente in difficoltà, illuminando le scelte e l’agire di chi ha responsabilità.