Comunicazioni

PRIMA “I NOSTRI”.....

Si va sempre più diffondendo, purtroppo anche tra i cristiani, l’idea, apparentemente giusta, che prima di pensare agli altri, ai lontani, dobbiamo pensare a noi, ai vicini, “ai nostri”!..... di mons. Felice Bacco

 

Dicevo, purtroppo anche tra i cristiani, perché mi capita di parlare con diversi che la pensano così, spesso in buona fede, senza porsi il minimo dubbio sulla coerenza di tale principio con gli insegnamenti evangelici. Prima, dunque, i nostri poveri, gli italiani, le persone che appartengono alla nostra nazione, poi, in seconda battuta, e se è possibile, è giusto pensare anche agli altri. Da tale principio nasce la posizione secondo la quale gli immigrati devono fare i conti con i poveri del nostro territorio: non possiamo aiutarli, se non dopo aver risolto i nostri problemi, dopo aver aiutato i nostri cittadini indigenti.

Mi rivolgo innanzitutto ai cristiani, ai nostri fedeli: come è possibile conciliare gli insegnamenti di Gesù con il principio che distingue tra “nostri” e “loro”, soprattutto se lo applichiamo ai poveri? I poveri possono essere divisi in “nostri” differenziandoli da quelli che non ci appartengono, che italiani non sono? Possiamo conciliare la vita cristiana con l’indifferenza nei confronti dei poveri che non sono i “nostri”? Si può conciliare il cristianesimo, il Vangelo, con questa visione “partitica” del genere umano? Credo sia giusto riflettere sul fatto che certi modi di pensare, talune opinioni che ci vengono comunicate e reiterate, alcune volte in una maniera così subdola da apparire veritiere e convincenti, siano talmente inconfutabili da confermarci nell’idea che alla fine i valori devono fare i conti con la realtà e che non è possibile aiutare tutti; quindi, prima “i nostri”!

Mi permetto di offrire anche alcune considerazioni, che possono valere a prescindere dall’essere o meno cristiani, e cioè da un punto di vista squisitamente umano. Se dovessimo accettare il principio del pensare prima “a noi”, si avvalorerebbe la tesi secondo cui si giustificherebbe il pensare che ognuno debba pensare prioritariamente alla propria famiglia, poi agli altri. Oppure, come alcune volte sento dire nella mensa comune dei poveri di cui mi occupo: prima devono pensare ai poveri della città, poi, se avanza, anche agli “stranieri”; veniamo prima noi.  A questo punto, perchè mai qualcuno non dovrebbe avvallare la tesi secondo la quale bisogna prima pensare ai bisogni dei corregionali settentrionali e poi a quelli del meridione,  a quelli del nord e poi a quelli del sud, fino ad ipotizzare una sorta di  abominevole identificazione per quartiere e per abitazione, un vergognoso “censimento” che, alla fine, vedrebbe sempre i residuati ultimi esclusi, i “paria” di ogni stato, di ogni nazione, di ogni luogo. Ma che significa, prima dobbiamo pensare ai nostri? Quali sarebbero i reali bisogni dei nostri da anteporre a quelli degli altri? I bisogni di prima necessità? Un certo tenore di vita? E chi stabilisce la media, il discrimine? Io credo di non esagerare nell’affermare che se dovessimo prima soddisfare i nostri bisogni per poi aprirci a quelli degli altri, rimarremmo tutti legati al palo del nostro egoismo, che non ci fa smettere mai di desiderare più di ciò che si ha e di cui si ha bisogno e che, ovviamente, non ci fa ritenere mai soddisfatti e appagati. Finiremmo quindi di pensare solo a noi stessi e a quello che ci manca ancora, più che riconoscere oggettivamente che forse abbiamo più di ciò che serve per vivere dignitosamente, non consentendoci neanche di ammettere che, comunque, coloro i quali bussano alle nostre porte non hanno neanche il necessario. Non esistono i “nostri” e gli altri, noi e loro, esiste solo l’unica grande famiglia del genere umano.  Ogni considerazione, ogni decisione, ogni programma, ogni progetto, ogni azione, personale e collettiva, deve rispettare questo principio che è umano e cristiano. Don Tonino bello, in una delle sue geniali espressioni, diceva che “essere santi, cioè cristiani, significa diventare uomini sino in fondo”.